La coltivazione della vite è stata per secoli l’attività principale della nostra gente. La cultura del vino è stata fondamentale per l’evoluzione del nostro territorio sia dal punto di vista sociale, economico e culturale. Ha inciso profondamente anche sulla trasformazione del paesaggio, donando la bellezza ad un territorio che era solo bosco, rocce, terra arida, aggrappata con le unghie alla montagna.
Il vino che si produce alle Cinque Terre era ed è un “vino del mare”. Nasce da una viticoltura praticata su vigne situate in terreni a picco sul mare, spettacolari, ma esposti ai potenti venti di Libeccio ed al salmastro.
Il nostro vino è un’eccezione che nasce dalla sfida quotidiana che i nostri vecchi hanno dovuto affrontare nel corso dei secoli. La natura era stata molto avara nei loro confronti. Racconta Ettore Cozzani : “La Natura aveva concesso loro un po’ di acqua amara e un po’ di roccia nuda. La vita eroica di un popolo ha saputo, di generazione in generazione, rompere col piccone la costa; lavorando con la sola forza delle braccia ha scavato nel masso i piccoli ripiani, li ha orlati di muretti a secco e vi ha piantato la vigna e l’ulivo”.
L’uomo ha dovuto ingegnarsi come operaio, architetto ed ingegnere. Ed ha vinto questa sfida ambiziosa. Dal vino sul mare ha creato un paesaggio unico, spontaneo. Non lo ha fatto in maniera scientifica, ma grazie al vissuto della comunità locale, grazie al comune sentire e all’esperienza accumulata giornalmente per sopravvivere.
Nel corso del tempo le Cinque Terre hanno vissuto momenti difficili come quello che stiamo vivendo oggi. Oltre alle due grandi guerre, il nostro territorio ha conosciuto in passato epidemie di colera, pandemie, invasioni barbaresche, saracene, fillossera, crolli, frane e recentemente grandi mareggiate. Per ultima, la disastrosa alluvione del 2011.
Questi eventi hanno causato morte, distruzione e pesanti ricadute economiche. Restano però a testimonianza della forza della nostra gente che, tenacemente, ha sempre saputo rialzarsi per continuare a vivere in questo territorio unico e troppo bello, per non essere amato.
La viticoltura era già presente in epoca romana. Ne sono testimonianza alcuni toponimi dei luoghi agricoli di chiara origine latina. Piantare la vite alle Cinque Terre è stato, ed è ancora oggi un atto di speranza e di fiducia verso la Natura. Gli allora abitanti delle Cinque Terre non risiedevano sulla costa ma sulle alture intorno al Santuario di Nostra Signora di Reggio e nell’entroterra. Abitare sul mare era ancora troppo pericoloso e disagevole. Scendevano giù all’alba e, alla sera, risalivano di là dai monti dove avevano le case. Così per un pò di tempo fecero i pendolari. Naturalmente andavano a piedi (possiamo, quindi, dare loro il merito di aver anticipato, inconsapevolmente , il “trekking” alle Cinque Terre).
Intorno all’anno mille, quando cessarono le incursioni dei pirati Saraceni, e la costa divenne sicura, scesero definitivamente al mare e vi si stabilirono. Lì, lungo le sponde dei cinque canali edificarono, in tempi diversi, gli odierni cinque paesi. Fu così possibile iniziare l’opera ciclopica di recupero e trasformazione della zona costiera. Con le pietre recuperate in loco crearono chilometri di muri a secco rendendo pianeggiante un territorio che in natura era verticale. Lo resero coltivabile. Con zappa e piccone. “Dipinsero” un panorama terrazzato di una bellezza unica, rara, pari ad un’opera d’arte dipinta da un grande maestro. Forse è anche per questo che le Cinque Terre furono meta ambita di pittori famosi.
Con l’avvento della Repubblica di Genova, con la sua conseguente espansione verso la riviera orientale della Liguria e l’insediamento dei Genovesi a Portovenere l’agricoltura ed il vino assunsero una rilevante importanza economica. Il vino e l’uva conobbero il mercato. La stessa città di Genova nel XII secolo diede un notevole impulso al commercio del nostro vino. Numerosi documenti notarili ne attestavano il trasporto. Questo avveniva esclusivamente via mare. Il mare, allora, era l’unica via di comunicazione possibile. Il trasporto via terra era praticamente impossibile data la natura del territorio aspro ed inospitale.
I Romani, seppur fossero grandi costruttori di strade, rinunciarono ad edificarne alle Cinque Terre. L’acclività e franosità delle colline che si ergevano a picco sul mare rendevano il lavoro impossibile. Infatti preferirono costruire le strade in Val di Vara. Più semplice. Da noi approntarono solo un piccolo, stretto percorso sul crinale corrispondente all’attuale sentiero n.1, conosciuto anche come Alta Via delle Cinque Terre.
Così il mare che bagnava tutti i cinque paesi fu uno sbocco notevole ed una opportunità per gli abitanti dei borghi. Essi, come ricorda Renato Birolli, pittore che frequentò Manarola negli anni 50, erano contadini e pescatori allo stesso tempo. Colui che coltivava l’uva di giorno era lo stesso che di notte pescava le acciughe:
“..dalle vigne geometriche scenderà tra poco l’uva; dal mare sale sempre il pesce. E chi va a pesce è il medesimo che sale alle vigne.”
Ma c’erano anche padroni di leudi da trasporto, padroni marittimi, naviganti e commercianti.
Il vino e l’uva da tavola venivano imbarcati per Genova ed altre destinazioni dagli unici approdi sicuri che le Cinque Terre potevano offrire: Vernazza e Monterosso. I vigneti, vista la rendita economica, iniziarono ad espandersi notevolmente. Nel 1874 con l’avvento della ferrovia l’isolamento dei cinque paesi fu rotto definitivamente. L’uva ed il vino vennero così trasportati col treno.
Dario Cappellini nel suo bellissimo volume “Per quell’amor di cose”, scrive :
“Il commercio col treno era iniziato ai primi del secolo. Stando agli appunti di Costantino Rollandi la prima spedizione avvenne nel 1904, il 20 luglio. Destinatario il sig. Gagliardo Attilio, mercante genovese. In quell’anno la famiglia Rollandi che aveva i terreni ben curati quasi al livello del mare dal 20 luglio al 13 agosto, in 164 ceste spedì 1744 chili d’uva con un ricavo di 506 lire e 85 centesimi, 29 centesimi il chilo. Altri due mercanti genovesi che operavano in zona furono Lercari e Barbagelata, gente di mercato, grossisti cui ogni giorno veniva spedita uva primaticcia. Tutto era basato sulla fiducia reciproca ed anche il prezzo era fissato da chi comprava. I conti poi venivano saldati a settembre, prima della vendemmia, dai mercanti che venivano direttamente alle Cinque Terre”.
Il vino e l’uva da tavola venivano imbarcati per Genova ed altre destinazioni dagli unici approdi sicuri che le Cinque Terre potevano offrire: Vernazza e Monterosso. I vigneti, vista la rendita economica, iniziarono ad espandersi notevolmente. Nel 1874 con l’avvento della ferrovia l’isolamento dei cinque paesi fu rotto definitivamente. L’uva ed il vino vennero così trasportati col treno.
l treno pose fine all’isolamento degli abitanti ed aprì agli uomini nuove opportunità di lavoro. Così piano piano essi lasciarono l’agricoltura alle donne ed andarono a lavorare fuori: chi in Arsenale alla Spezia, chi in ferrovia, chi a navigare sui “vapori “. Da questo momento in poi viste queste nuove opportunità lavorative più remunerative e meno faticose, inizio l’abbandono dei terreni. Ancora in maniera impercettibile ma che si accentuò dopo la terribile “malattia” della fillossera, ed ebbe la sua massima con l’esplosione del fenomeno turistico.
Vernazza, Corniglia e Riomaggiore: vista la resa economica, aumentò l’impianto di nuove vigne e gli ettari di terreno. Nel primo dopoguerra l’estensione dei vigneti conosce la sua max estensione: 800 ettari su un’estensione totale di 1400 erano impegnati a uva da tavola e per vinificare.
Un evento inaspettato rimise il tutto in discussione. Un piccolo insetto fece la sua comparsa alle Cinque Terre. Era sul finire del 1920. I vigneti furono devastati. Per primi quelli bassi, quelli con le vigne più belle più sane e robuste. Appassirono rapidamente. La pianta seccava e non si capiva perché. La fillossera era una malattia sconosciuta in Europa importata con i primi ceppi di vite americana. Sconvolse le Cinque Terre perché distrusse completamente l’economia delle Cinque Terre di allora, economia basata soprattutto sul vino e l’uva.
Nel 1920, arrivò un insetto sconosciuto, la “fillossera”, che causò la devastazione totale dei vigneti da Punta Mesco sino a Tramonti.
Le piante di vigna, inspiegabilmente, cominciarono a seccare, non avevano più radici ed i tralci si assottigliavano. L’inatteso ospite sprofondò gli abitanti nella più disperata disperazione perché erano già abbastanza poveri. Ora lo sarebbero stati ancora di più.
I contadini si sentivano impotenti di fronte a tanta desolazione. Il lavoro di anni era andato completamente in fumo a causa di un piccolo insignificante animaletto che non conoscevano e non sapevano come combattere perché non si conoscevano metodi validi di lotta. Si barcollava nel buio.
I contadini allora dovettero abbandonare un antico rito millenario di propagazione della vite come quello delle propaggini. Le propaggini non erano altro che tralci di un ceppo posto sottoterra per almeno un anno e che autonomamente radicavano e da cui sorgevano nuove vigne. Si pensò di utilizzare allora per i nuovi impianti la vite americana, immuni all’insetto.
Ma erano un’altra cosa rispetto ai nostri perché davano poca uva e di bassa qualità. Alla fine si ricorse alla tecnica dell’innesto necessaria a produrre la qualità d’uva e di vino che si voleva. Una tecnica nuova che consisteva nell’innestare i nostri vitigni sul ceppo americano.
Nel corso del tempo le Cinque Terre hanno vissuto momenti difficili come quello che stiamo vivendo oggi. Oltre alle due grandi guerre, il nostro territorio ha conosciuto in passato epidemie di colera, pandemie, invasioni barbaresche, saracene, fillossera, crolli, frane e recentemente grandi mareggiate. Per ultima, la disastrosa alluvione del 2011. Questi eventi hanno causato morte, distruzione e pesanti ricadute economiche. Restano però a testimonianza della forza della nostra gente che, tenacemente, ha sempre saputo rialzarsi per continuare a vivere in questo territorio unico e troppo bello per non essere amato.